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FANFIC
Shrinking
Juuhachi Go
Dicevo
che il suono del clavicembalo mi aiutava a focalizzarmi sulle mie preghiere,
che ogni nota suonata su quello strumento aveva il potere di ricordarmi di ogni
singolo filo di erba di Cephiro.
Mentivo.
Forse provavo anche un certo gusto nel farlo, e quell’ago di colpevolezza
accuratamente piantato in fondo al mio cuore poteva fare ben poco contro di
esso.
Il mio maestro – te ne ricorderai anche tu, non è vero? –
era un attempato musicista dal ventre grosso e il volto rubizzo ornato da due
folti mustacchi grigi, indulgente e indubbiamente dotato per l’insegnamento.
Prendeva le mie mani per posizionarle sui tasti.
E io guardavo te.
Quando ero sicura che tutti gli sguardi fossero fissi altrove, e che solo il
tuo lo fosse su di me.
E speravo sempre che tu potessi riconoscerti in ogni tremula nota che sgusciava
fuori dalle mie dita, quando sapevo che ogni fiore che aveva smesso di sbocciare
era colpa mia.
Eppure riuscivo anche a non sentirmi schiacciata da questa consapevolezza, dato
che nessuno sapeva che stessi suonando per te.
Come ho fatto, mi chiedo.
~*~
La forza
dell’amore di Emeraude – se ne rese conto quella mattina in cui
si accorse di aver dormito con la camicia da notte a rovescio – derivava
dal fatto che le sue spesse, folli radici affondavano in Zagato senza una ragione.
Alle grandi domande pseudo-filosofiche che si era posta sul problema non esistevano
risposte, né tantomeno filosofie da cui attingerne qualcuna.
C’era solo Zagato, e i suoi lunghi capelli neri, e i suoi impenetrabili
occhi color ametista, velati da qualcosa che i suoi paramenti scuri e incrostati
di opali sembravano appesantire.
E il suo sorriso, comprensivo e velato di una malinconia senza ragione, e senza
sbocco.
Mai una volta Emeraude l’aveva visto perdere la propria usuale dolcezza.
Addirittura, la patina di vetusta saggezza che riusciva ad applicare su di essa
lo rendeva maestoso e imperscrutabile.
Pregavano insieme, sempre.
Un giorno lui le aveva sfiorato le mani e le aveva chiesto se fosse felice.
Lei non aveva risposto. Non direttamente.
Non era la sua felicità a premerle, né quella di Cephiro, il che
era un tradimento troppo grande perché Emeraude potesse perdonarlo.
Aveva un’indole incredibilmente misericordiosa.
E la tendenza ad escludere se stessa da questo perdono.
Arrivavano le nuvole, quando si rinchiudeva a piangere nella sua stanza. Col
tempo, Emeraude si accorse, con orrore, di non riuscire più a dominarle.
C’erano giorni in cui più tentava di ostacolare le lacrime, sfregandole
via con le mani, e più quelle cadevano con dispettosa insistenza, deformando
i suoi pensieri come vetro bollente, mentre il cielo di Cephiro diventava livido
come un bambino geloso di un cuore di cui non era il fulcro. Non più,
almeno.
Addirittura, infuriava un temporale il giorno in cui Zagato le disse di amarla.
Difficile dimenticare il modo in cui il petto prese ad alzarsi e abbassarsi
al ritmo di quell’eccitazione obnubilante.
A dispetto di quella felicità, sentiva le lacrime caderle lungo le guance.
«Hai idea di quel che succederà a questo mondo, Zagato?».
Non l’aveva detto con la calma che avrebbe voluto adottare, con la soave
serenità del Pilastro.
Come avrebbe potuto, del resto?
~*~
Avevo un’ancella
che impastava per me piccole formine di marzapane, per tingerle con dello sciroppo
di frutta e spolverarle di zucchero a velo.
Non eri goloso – non eri assolutamente niente, a dire il vero -, ma ero
riuscita a comprendere quanto adorassi quei dolcetti morbidi e colorati.
Ti costrinsi a prendere il the in mia compagnia tutti i pomeriggi.
Ricordi come scostavo la scodella dal tuo lato del tavolo?
Quando lo vedevi, sorridevi appena, sollevando fra le dita la perfetta, luccicante
miniatura di un’arancia.
Sorridevo anch’io, nel modo più limpido e dolce possibile, perché
nessuno potesse vedere che era amore.
L’unico amore che ero ancora in grado di provare.
~*~
Zagato
non parlava molto.
Non più del necessario. Sembrava aiutarla nei suoi doveri con tenace
solerzia, e, quando le rivolgeva la parola, era di un tale conforto che Emeraude
sentiva finalmente qualcuno vicino al suo cuore, qualcuno che sorreggesse insieme
a lei il peso di Cephiro, in mezzo al caloroso vortice di affetto che la avvolgeva
all’interno del castello.
Per quanto Emeraude amasse con trasporto e tenerezza ogni singolo abitante del
suo mondo, e fosse immensamente grata nei confronti della sua Corte, Zagato
era l’unico a comprendere quanto quell’onere si fosse fatto pesante
sul suo petto.
Talvolta osservava i suoi occhi. Sembrava compiangessero le sue piccole spalle.
Si precipitava al suo fianco, ravvolgendola nel suo mantello, quando la vedeva
crollare esausta per la troppa energia impiegata, sussurrandole qualcosa che
le restituisse la forza di mantenere in moto il pesante ingranaggio di Cephiro.
Qualcosa che la facesse ridere, che instillasse nel suo cuore speranza, e felicità,
che rendesse forti le sue spalle.
Ed Emeraude riusciva a sentirsi davvero bene.
Finché non si rese conto che solo le parole piene di fiducia di Zagato
erano in grado di sostenere la sua forza.
Un giorno, mentre passeggiavano, il sole cominciò a svanire dietro sbuffi
di nuvole argentate.
Eppure Emeraude rideva, nonostante qualcosa le bisbigliasse che non avrebbe
dovuto, perché non era per Cephiro, e forse nemmeno per se stessa.
Era contenta che Zagato sorridesse insieme a lei.
~*~
Quel riso
prese a spuntare spesso anche quando Emeraude si ritrovava sola nel lussuoso
grembo dei propri appartamenti. Era un velo di gaiezza vago e immotivato, e
lei non si chiese mai perché si stendesse su ogni suo pensiero, e rendesse
il cielo di un grigio sempre più pesante, solido come velluto.
Ma anche la vacua spensieratezza si stiracchiò in un’espressione
diversa, desolata, quando le passeggiate in compagnia di Zagato si fecero sempre
più lunghe, e Emeraude prese a sentirsi sola in sua assenza.
Sempre più spesso il suo pensiero volò involontariamente a lui,
a cosa stesse facendo, pensando, a cosa lo trattenesse ancora lontano dalla
sala in cui solevano riunirsi in preghiera.
Un pomeriggio le parve di intravedere i suoi occhi nel riflesso scintillante
di una vetrata, mentre guardava distrattamente le chiome di un albero che si
tingevano d’oro.
Fece chiamare un paggio perché convocasse il Sommo Sacerdote in tutta
fretta. Nessuno dei due disobbedì: un boccheggiante Zagato giunse subito
al suo cospetto.
In silenzio, si sedette al suo fianco e giunse le mani in preghiera, fissando
le foglie secche che si dondolavano in equilibrio precario sui rami di quell’albero
nel giardino.
Emeraude sobbalzò nel momento in cui sentì la pressione gentile
delle mani di lui sulle sue.
«Emeraude, voi… siete felice?».
Lei rimase in silenzio, rivolta alla finestra. Prese un sospiro, prima di voltarsi
verso di lui.
«E voi lo siete?» chiese a sua volta, con un sorriso triste.
«Credo di sì.».
«Bene.».
Fece finta di non notare la lacrima che le era scivolata lungo una guancia.
~*~
«Piove?».
La voce di Zagato tradiva sincera sorpresa.
«Già.».
Emeraude attorcigliava un dito in una ciocca di capelli con aria contrita.
«Siete sicura di sentirvi bene? Mi sembrate pallida.».
«Non datevi pensiero, è solo un leggero mal di testa. Mi impedisce
di concentrarmi.».
«Sciocchezze, non è la vostra mancanza di concentrazione a preoccuparmi.
Avete il volto bianco come un cencio e gli occhi tutti rossi, permettete che
vi riaccompagni nelle vostre stanze.».
«Non disturbatevi, io—».
«È un piacere esservi d’aiuto.».
~*~
Ci fu un
momento, durante la mia vita, in cui la stessa forza di volontà che teneva
in vita il mio pianeta mi distrusse.
Sentii un’ondata di repulsione verso me stessa la mattina in cui mi svegliai
in quel mio letto troppo grande e carico di trine, con indosso una camicia da
notte che avevo distrattamente infilato con le cuciture verso l’esterno
e i capelli che mi ricadevano addosso in un manto disordinato.
Mi ero svegliata di soprassalto, con gli occhi spalancati su una certezza sola.
Non vi era motivo perché io amassi Zagato.
E questa mancanza non me lo impediva affatto.
Per un attimo, rese estraneo tutto quel che mi circondava, ed ebbi la sensazione
che il cielo e la terra, là fuori, stessero brontolando.
~*~
Decisi
di offrirti le piccole cose.
Di lasciarti sgattaiolare nel mio gesto più inutile, e di dedicarti ogni
stupida piccolezza con minuziosa precisione.
Credevo che non sarei stata colpevole, se nessuno avesse visto.
Ma sbagliavo.
E lo sapevo.
~*~
Un giorno
lo vide, lì in giardino. Parlava con Lantis, che se ne stava beatamente
appollaiato sui rami di un albero.
«… credi sia giusto che ogni responsabilità gravi solo e
soltanto sulle spalle del Pilastro?».
Appoggiata a una colonna, Emeraude si sentì spaventosamente preda dei
battiti del proprio cuore che risuonavano ovunque come pesanti rintocchi sanguigni.
Un giorno avrebbero sommerso tutto, fino all’ultimo brandello, se non
li avesse fermati.
~*~
Zagato
la inseguì.
Lungo il colonnato, nell’atrio, su per la scalinata immensa che le avrebbe
permesso di sprangarsi dietro l’ingresso alle sue stanze, senza possibilità
di sentire una parola di più, senza voler sapere altro.
E ricordò il suo sguardo, sempre triste.
Le venne in mente il suo stesso sorriso.
E Cephiro rimase fuori da tutto questo, di nuovo, senza potervi più fare
ritorno.
Solo un gradino, e forse avrebbe potuto tentare un’ultima preghiera, un’ultima—
La mano di Zagato si chiuse sul suo polso.
«Non voglio che scappiate da me.».
«E io non voglio che lo vogliate!».
Piangeva. Grosse lacrime rotolavano sulle guance delicate.
«Non ponetemi la vostra volontà come avversaria, non potrei mai
attraversarla…».
«Vi sbagliate!».
L’aveva gridato in un singhiozzo che aveva scosso tutto il suo corpo come
un terremoto.
La pioggia batteva con violenza sui vetri delle finestre, ora.
Era così piena di lui che Cephiro intero sarebbe scoppiato in mille pezzi
senza che Emeraude se ne fosse curata.
«Lo so.».
«No, no!» Emeraude nascose il viso fra le mani. Zagato gliele scostò
dal viso e aprì le porte dietro di lei, sorreggendo la sua vita evanescente
fra le mani.
L’ingresso si richiuse con un tonfo.
«Io ti amo!».
~*~
Le sciocchezze
con cui cercavo di coprirmi smisero di bastare.
~*~
Emeraude
si aggrappò a lui mentre gli ultimi echi di quella frase vorticavano
nelle sue orecchie.
«Non posso più stare a guardare; non posso più guardarti
mentre paghi la salvezza di un mondo intero con la tua felicità!».
Senza lasciarlo andare, Emeraude si scostò quel tanto che le bastava
per scorgere il suo viso. Gli spostò una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
«Ho cominciato a sentirmi felice perché tu lo sembravi, mi servivo
di una cosa più minuscola dell’altra perché tu lo fossi.».
Indietreggiò piano, incrociando le mani in grembo.
«Ma è stato abbastanza perché tu diventassi la mia preghiera
stessa, senza che io riuscissi a fermarmi.».
Prese a singhiozzare di nuovo, senza ribellarsi quando Zagato la avviluppò
nel mantello.
«Non ho voluto. Credevo che bastasse sottintendere il mio amore in ogni
cosa per tenerlo a freno. Ma avevo torto.»
«Anch’io ne avevo. Credevo fosse giusto lasciarti al tuo dovere,
fino a che non ho cominciato a pregare perché la forza non ti mancasse
mai. Non per sostenere Cephiro, ma per sostenere te stessa. Perché sorridessi
almeno una volta. E temo non mi sia mai interessato altro.».
Ed era felice. Stavolta lo era davvero, e tutto Cephiro sfuggì al controllo
della sua mente, in un turbine impazzito di uragani e maree incontrollabili,
terremoti ed eruzioni.
«Hai idea di quel che succederà a questo mondo, Zagato?».
«Sì. E non mi importa.».
Emeraude si districò dal pesante mantello nero con cui lui l’aveva
abbracciata, fissandolo con i grandi occhi azzurri traboccati di disperazione,
affetto, orrore.
Nello sguardo di Zagato non vi era traccia di rabbia, né freddezza. Solo
l’abituale tristezza, a cui, adesso, Emeraude sapeva dare un nome.
Scossa da un fremito, si voltò e prese ad allontanarsi.
Zagato non la fermò, ma, dopo che fu uscita, si incamminò di nuovo
verso i giardini.
Pioveva ancora.
~*~
«Sei
rimasto sui rami con questa pioggia?».
«Mh.».
Silenzio.
«Non riesco a non causarle dispiacere. E non riesco più a vederla
dispiaciuta.».
«Allora porrò fine a questa tragedia.».
~*~
«Principessa
Emeraude.».
Zagato si inchinò al suo cospetto, ai piedi dei gradini che lo separavano
dal trono. Solo Emeraude, così avvezza alla sua vicinanza, lo trovò
trafelato, inquieto, e il pensiero le fece, come al solito, più male
di quel che avrebbe dovuto.
«Cosa vi è successo?».
«Lantis non si trova più a Cephiro.».
Non seppe perché quelle parole furono capaci di sconvolgerla così
tanto. Forse perché rappresentavano la prova che nulla avrebbe mai potuto
tornare come prima.
«Cosa…?».
«Cercheremo di rintracciarlo in ogni modo per riportarlo al vostro fianco.».
Il Sommo Sacerdote le scoccò un’occhiata addolorata.
Emeraude strinse le labbra, per poi indirizzargli poche parole.
«Confido in voi.».
Forse neppure prima le cose erano mai andate nel verso giusto.
Osservò Zagato ritirarsi, e le porte della sala chiudersi con un tonfo.
«Clef.».
Non aveva mai fatto caso a come l’eco fosse possente, fra quelle pareti.
«Ho deciso di invocare i Magic Knights.».
~*~
A/N
28 agosto 2007, ore 16:59. Che voi ci crediate o no, la prima parola che mi
è venuta in mente per questa storia è stata davvero “clavicembalo”,
a prescindere dal fatto che i clavicembali esistessero su Cephiro o meno X°DD.
Beh, è una storia fatta di uhm… rimandi interni. La struttura mi
è venuta in mente mentre la scrivevo, sono più o meno gli stessi
frammenti che si allargano, e spero che non faccia troppa pena. Scritta con
una scioltezza che non mi sarei mai aspettata, e, se proprio vogliamo darle
un motivo, diamolo al fatto che ho rivisto Rayearth e che amo Zagato ed Emeraude
da anni. XD. Credo che alla liz questa storia piaccia. ^__^. C’è
qualcosa di incredibilmente coinciso nel modo in cui l’ho scritta. Uhm.
Pronunciatevi anche voi èoé”.
Juuhachi
Go.
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