FANFIC Then comes the sun Fanfic partecipante alla prima edizione del Contest Le parole in grassetto sono quelle richieste dal contest *** “Piove. Sai che novità. È da quando sono qui, che non fa altro.” Sollevò svogliatamente il cucchiaio dalla ciotola, non per portarlo alle labbra ma solo per osservarlo con scarso interesse. Lo zucchero, aveva scoperto, non era un buon rimedio alla tristezza. Alla faccia di tutte le soap-opera sdolcinate in cui lei si consolava ingozzandosi di gelato alla panna, sprofondata sul divano. Tornò ad abbassare la mano, un piccolo sospiro le sfuggì dalle labbra dischiuse. Non lo vedeva da una settimana e già le parevano passati mesi. Anni. Se avesse saputo dove si trovava in quel momento, avrebbe potuto telefonargli. Sarebbe stato così facile. Sollevare la cornetta e comporre un numero, ed attendere di sentire la sua voce risponderle. O forse, no, non sarebbe stato facile. Sarebbe stato strano. Strano perché era così abituata ad averlo intorno, così abituata a doversi solo voltare per parlare con lui, che non riusciva ad immaginare che effetto le avrebbe fatto sentire la sua voce e saperlo a chilometri di distanza. Da quando era tornata a Cerulean City non aveva fatto altro che piovere. Le sfuggì un sorrisetto malinconico e insieme sarcastico, mentre osservava le gocce d'acqua che si infrangevano con rumore leggero sui vetri della finestra. Era quasi ironico, in un certo senso, perché quel clima si adattava perfettamente al suo umore. Ma era un sorriso nato troppo fugacemente per durare, e infatti sfumò in meno di un istante come una bolla di sapone; e lei sentì gli occhi pizzicarle di quelle lacrime che, chissà come, era riuscita a non versare e che adesso premevano per uscire. Se davvero gli avesse telefonato, si rese conto, non sarebbe riuscita a parlargli. Era arrivata a casa mentre la sera iniziava a calare, e l'aria non era ancora buia ma solo azzurra, quel tanto che bastava ad accrescere l'assurda sensazione di irrealtà che le si era appiccicata addosso da quando l'aveva salutato ed era salita in sella alla sua bici. Aveva ascoltato il rimbombo dei propri passi nelle stanze deserte. Poi si era fermata. Il suo bozzolo di sogno si era squarciato di colpo, e solo allora aveva realizzato davvero che era sola, per la prima volta dopo quattro anni era sola, per la prima volta dopo quattro anni era senza di lui. E c'era mancato poco che si mettesse a piangere davvero. Adesso, mentre sedeva lì, con lo sguardo fisso sulle gocce che continuavano ininterrotte a cozzare contro i vetri, e con fra le mani una coppa di gelato che si andava inesorabilmente sciogliendo e che non avrebbe mai mangiato, si ritrovò a chiedersi che cosa provasse veramente. Era innamorata di lui? Forse. Ma gli voleva bene. Gli voleva bene, quanto non ne aveva mai voluto a nessuno. E si sentiva bene con lui, semplicemente, come non le era mai successo. Il solo essere al suo fianco le dava una tale sensazione di completezza da renderla felice. Distolse lo sguardo dalla finestra, quella pioggia la deprimeva troppo. Somigliava troppo alle lacrime. Voleva solo pensare a lui, ora. Ad ogni suo sguardo, ad ogni sorriso che le aveva rivolto, e che l'aveva fatta arrossire. Poteva continuare a pensare a questo, almeno per un po', e non al fatto di essere lontana da lui migliaia di chilometri, a tutto il tempo che sarebbe passato prima che potesse rivederlo. A quante cose sarebbero ormai state cambiate, e per sempre, quando infine l'avrebbe rivisto. “Mi sono sempre comportata come se non mi importasse niente di te, vero? Ma lo sai che non è vero. Lo sai.” Però l'avrebbe voluto, quasi, che davvero non le importasse niente di lui. Perché non si sarebbe sentita così vuota, adesso, se così fosse stato; e non avrebbe avuto paura che il tempo che avrebbero passato lontani glielo portasse via per sempre. Un'amicizia come quella, cercava di convincersi, che era durata quattro anni e che in quei quattro anni era cresciuta ogni giorno, non poteva finire in quel modo, con un arrivederci mormorato con voce rotta davanti ad un tramonto. Ma guardò fuori, poi, e stava ancora piovendo. *** Era lì in piedi, sotto quel sole così intenso che quasi le dava noia. E aspettava. Aspettava che arrivasse e il cuore le batteva forte, e al tempo stesso aveva paura, paura che le cose fossero cambiate troppo, paura che un anno fosse troppo lungo. Paura di rivederlo. Il telefono aveva squillato, quella mattina, e lei aveva risposto e il cuore le aveva fatto un balzo nel petto, quando aveva riconosciuto la voce che aveva pronunciato quel “ciao” incerto e quasi timido. Lui le aveva chiesto come stava. Bene, aveva risposto, e tu? Anch'io. Ho vinto la lega di Hoenn, sai? Congratulazioni, sono felice per te. E poi lui l'aveva detto. «Senti... sono a Pallet. Ti va se ci vediamo?» Aveva balbettato un “sì” con voce tremante. Allora ci vediamo. Ed aveva riappeso, rimanendo a fissare il vuoto con una mano sulla cornetta, fino a che i rintocchi dell'orologio alle sue spalle non l'avevano fatta sussultare. Si guardò intorno nervosa. Un anno. Un anno in cui non l'aveva visto, né gli aveva telefonato o scritto. E adesso era lì, a lottare contro ogni singolo battito del proprio cuore, sotto quel sole accecante, ad aspettare e temere insieme il suo arrivo. Ma lui le mancava. Le era mancato così tanto... «Misty!» Si voltò di scatto. Lui era lì, il sole risplendeva sui suoi capelli scuri. Non era cambiato affatto dall'ultima volta che l'aveva visto. Le lacrime che un anno prima non aveva versato adesso le salirono agli occhi. «Ash...» Gli corse incontro. Ash le sorrise commosso. E solo in quel momento lei capì che era tutto come allora, e che lo sarebbe stato per sempre, non importava quanti anni avrebbero potuto passare separati, ancora. Lo guardò per un lungo istante. Poi si piegò verso di lui e gli buttò le braccia al collo, stringendolo forte. Lui la abbracciò, e si lasciò abbracciare, e non era solo per nascondere le lacrime. FINE |
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